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Corte d'Appello di Bologna > Licenziamento disciplinare
Data: 12/03/2001
Giudice: Castiglione
Tipo Provvedimento: Sentenza
Numero Provvedimento: 116/01
Parti: Francesco M. / Poste Italiane S.p.A.
LICENZIAMENTO PER GIUSTA CAUSA - FATTI ESTRANEI ALL'ATTIVITA' LAVORATIVA - RILEVANZA AI FINI DELL'INAPPLICABILITA' DELL''ART. 7 STATUTO DEI LAVORATORI - INSUSSISTENZA - TUTELA REALE - APPLICABILITA'.


Un fattorino dipendente delle Poste Italiane SpA, rinviato a giudizio per gravi reati contro il patrimonio, veniva licenziato senza preventiva contestazione di addebito, ed il Tribunale di Piacenza riteneva legittimo il licenziamento sul rilievo che i fatti contestati non attenevano al rapporto di lavoro bensì a comportamenti svoltisi all'esterno, quindi estranei all'attività del ricorrente. Il dipendente proponeva appello e la Corte d'Appello di Bologna accoglieva il ricorso riformando la sentenza di primo grado e prendendo spunto per una ampia e completa disamina di tutte le problematiche connesse all'applicazione dell'art. 7 legge n. 300/1970. La Corte ha innanzi tutto evidenziato che il potere disciplinare va ritrovato nell'art. 2106 cod. civ., che sanziona l'inosservanza agli obblighi di diligenza e di fedeltà (artt. 2104 e 2105 cod. civ.) connotanti le modalità di esecuzione della prestazione di lavoro, modalità riconducibili all'oggetto del contratto, sicchè il loro inadempimento si qualifica, prima di tutto, come inadempimento contrattuale. Ma mentre in generale l'inadempimento degli obblighi contrattuali trova la sua sanzione nella disciplina della risoluzione (artt. 1453 e segg. cod. civ.) e del risarcimento del danno, l'inadempimento del lavoratore - oltre a giustificare, talora, il licenziamento per giusta causa - rappresenta il presupposto di fatto perché possa esercitarsi un potere privato (quello disciplinare) inquadrabile nella categoria dei diritti potestativi, giacchè il datore di lavoro, con una sua dichiarazione unilaterale di volontà, può incidere sulla situazione soggettiva del lavoratore, modificandola senza il tramite di una domanda giudiziale, della quale è invece onerato il lavoratore, ove voglia far accertare l'insussistenza dei presupposti di fatto dell'esercizio di quel potere. La possibilità di irrogare sanzioni disciplinari (inquadrabili nella categoria delle "pene private") trova quindi fondamento nell'esistenza del potere direttivo e gerarchico, e limite nel criterio di proporzionalità tra sanzione e infrazione (art. 2106 cod. civ.) e nelle incisive prescrizioni (soprattutto) di carattere procedimentale dettate dall'art. 7 della legge n. 300/1970. Vanno quindi considerate in violazione dei precetti costituzionali innanzi tutto la sanzioni automatiche (senza procedimento disciplinare e senza valutazione della gravità del fatto) rinvenibili soprattutto nel settore del pubblico impiego (ovviamente prima della legge 7.2.1990, n. 19, che all'art. 9 ha eliminato la destituzione di diritto a seguito di condanna penale, prescrivendo che tale sanzione possa essere irrogata solo all'esito di un procedimento disciplinare) ma anche nel settore privato. Nella approfondita disamina della problematica relativa al licenziamento disciplinare, caratterizzata da numerosissime pronunzie sia della Corte Costituzionale sia della Corte di Cassazione (tutte scrupolosamente citate in sentenza), un punto fermo va certamente trovato nella sentenza delle Sezioni Unite n. 4827/1987, laddove i giudici di legittimità hanno statuito che, a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 204 del 1982, le garanzie procedimentali previste dai commi 2 e 3 dell'art. 7 legge n. 300/1970 (contestazione preventiva dell'addebito e audizione a difesa del lavoratore occupato) si applicano a qualsiasi licenziamento "ontologicamente" disciplinare, mentre per l'applicabilità della garanzia prevista dal comma 1 dello stesso art. 7 (pubblicità del cd. codice disciplinare) è subordinata alla predeterminazione, da parte di detta normativa, di specifiche ipotesi di giusta causa o giustificato motivo soggettivo di licenziamento, pur essendo ormai pacifico che per le sanzioni espulsive il potere di licenziare scaturisce direttamente dalla legge (Cass. n. 1412/2000; Cass. n. 2954/1999; Cass. n. 7884/1997). La decisione del giudice di Piacenza, quindi - basata sul fatto che il recesso del caso in esame troverebbe il suo fondamento nella legge - sarebbe stata condivisibile ove il lavoratore avesse lamentato esclusivamente la violazione dell'obbligo di affissione del codice, ma deve trovare censura laddove si pone in contrasto con principi ormai pacifici, secondo i quali "la funzione della previa contestazione dell'addebito, richiesta dall'art. 7 Stat. per i licenziamenti qualificati come disciplinari, è quella di consentire al lavoratore una puntuale difesa" (Cass. n. 11430/2000). Dalla violazione dell'art. 7 consegue, secondo la Corte d'Appello di Bologna, che "il rapporto di lavoro tra le parti deve considerarsi proseguito senza alcuna soluzione di continuità, stante l'inidoneità del licenziamento disciplinare illegittimo a risolverlo"; applicandosi nel caso concreto l'art. 18 legge n. 300/1970 "in ragione delle sua forza espansiva" (v. Cass. n. 204/1982). I giudici bolognesi hanno conseguentemente ordinato la reintegrazione dell'appellante nel suo posto di lavoro con pagamento di un'indennità - a titolo di risarcimento del danno - commisurata all'ultima retribuzione dal giorno del recesso a quello della effettiva reintegrazione, con, cumulativamente, gli accessori, interessi legali e rivalutazione (per effetto della sentenza n. 459 del 2000 della Corte Costituzionale, che ha dichiarato l'illegittimità dell'art. 22, comma 16, legge n. 724/1994)